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ATTRIBUTI STRUTTURALI

Proprio perché siamo consapevoli degli sviluppi del dibattito intorno alla “teoria istituzionale” dell’arte, il nostro approccio è anche finalizzato a comprendere quali siano le possibilità di un riconoscimento incentrato, innanzitutto, sulle proprietà strutturali di una determinata proposta artistica. In altri termini, si tratta anche di capire se, al di là di ogni teoria o pratica che riconduce il fatto d’arte al risultato di accordi autoreferenziali presi internamente al mondo dell’arte (istituzionalizzato), si possano elaborare validi argomenti per riconoscere una posizione artistica come rilevante, proprio a partire dalle specifiche proprietà strutturali che la caratterizzano.

L’esigenza di individuare un “campo neutro”, costituito da evidenze fattuali su cui elaborare un’analisi critica secondo “buone ragioni”, richiede tuttavia un preliminare chiarimento intorno agli assunti di natura “ideologica” che inevitabilmente intervengono nell’interpretare e valutare il dato definito come strutturale. Tale questione, a nostro avviso, deve essere affrontata tenendo conto di due diversi aspetti. Il primo riguarda il destinatario della nostra proposta, e consiste nel principio secondo cui l’esame critico non sarà sicuramente condizionato in senso negativo da convinzioni pregiudiziali nei confronti dell’orientamento ideologico che caratterizza la posizione artistica considerata. Analogamente, e questo è il secondo aspetto, il percorso da noi elaborato sarà tale da non porre come prioritarie ragioni di carattere generale o “metafisico”, sebbene dovranno essere almeno in parte esplicitate, come sarà chiaro più avanti. 

Ma queste sono considerazioni che rischiano di esser fin troppo banali. Ben diversa, e apparentemente più insidiosa per la nostra impostazione, è la convinzione di matrice costruttivista, che ritiene ormai del tutto superata la possibilità di una distinzione netta tra il piano delle asserzioni, volte a constatare i fatti, e quello delle valutazioni e dei giudizi normativi. In tal caso, parlare di proprietà strutturali come dati da cui partire per giungere a giudizi convergenti non avrebbe molto senso, proprio perché l’individuazione dei fatti dipende “fatalmente” dal nostro modo descrivere il mondo. Ma in realtà, questo non compromette la tenuta del nostro discorso. Quando parliamo di fatti o di dati strutturali possiamo benissimo accettare che questi siano da considerare come “configurazioni” o “costellazioni” dipendenti dal nostro particolare modo di parlare e in relazione a una qualche teoria o schema interpretativo. D’altra parte, il superamento della dicotomia tra l’ordine dei fatti e quello dei valori può essere concepita non nel senso di una semplice commistione,ma

nei termini di una relazione sistematica inclusa nel giudizio estetico che comporta, comunque, sia l’esperienza diretta dell’oggetto, sia un’esperienza dalle specificità puramente soggettive.

In quest’ottica la relazione di sopravvenienza tra attributi non-estetici e proprietà estetiche sembra rappresentare un valido schema per per delimitare il nostro ambito fattuale in merito alla costituzione e all’interpretazione di particolari oggetti come quelli artistici.

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Naturalmente, non intendiamo affatto presentare questo rapporto nel senso di una stretta corrispondenza secondo una logica riduzionista. Anzi, il nostro discorso acquista maggiore validità alla luce della sua interpretazione nota come emergentismo, laddove, secondo Levinson, le proprietà non-estetiche nascono in relazione alla base subveniente, ma “emergono” in termini causali e contingenti non essendo riducibili agli attributi non-estetici. In via preliminare, ci limitiamo a sottolineare come vi sia la necessità di circoscrivere l’ambito delle proprietà non-estetiche individuate come rilevanti, dal momento che se si amplia il loro ambito la relazione di sopravvenienza diventa talmente estesa da non essere più significativa. E, in aggiunta, manteniamo valida la distinzione tra le proprietà estetiche e quanto attiene alla loro valutazione, che dipende dal contesto soggettivo della loro interpretazione. Per quanto riguarda gli attributi non estetici, seguiamo la distinzione tra attributi strutturali e attributi contestuali; com’è noto, i primi comprendono qualsiasi aspetto percepibile (ma non estetico) intrinseco all’oggetto, mentre i secondi si riferiscono alle relazioni – rilevanti - che legano l’oggetto con il contesto artistico di riferimento.

Così come si articola nei confronti dell’interprete, la stessa relazione di sopravvenienza si può riconsiderare simmetricamente in relazione all’autore e alla sua intenzionalità. Questo ci permetterebbe, innanzitutto, di individuare un criterio per stabilire quale sia la configurazione degli attributi strutturali che riteniamo prioritaria nella definizione della base subveniente. Ciò inevitabilmente apre il discorso agli attributi di contesto. Ma anche qui, per le ragioni già dette in precedenza, deve valere una clausola restrittiva, per cui saranno privilegiate le procedure e i presupposti valoriali che hanno portato l’autore a predisporre la base strutturale in quella determinata configurazione. Non sarà pertanto compreso in questa presentazione l’intero complesso delle ragioni che “giustificano” la proposta artistica che proponiamo alla vostra attenzione, ma solo quei minimi riferimenti indispensabili per comprenderla.

Date queste premesse si può individuare quel campo relativamente neutro in relazione al quale ha senso parlare di una convergenza tra la sfera interpretativa e l’intenzionalità dell’autore: l’artefatto, con le sue specificità strutturali, inteso come diaframma che distingue e consente il confronto tra le due visuali.

Quando passiamo a considerare gli “attributi strutturali” a livello della pittura, le loro possibili configurazioni sono inevitabilmente in numero limitato. Ciò non risulta tanto da una ricognizione su base enumerativa delle varie possibilità di organizzare in modi diversi un particolare insieme di elementi dati. È la stessa clausola restrittiva di significanza che lo impone. Di conseguenza non ci resta che individuare alcune componenti strutturali secondo una distinzione largamente accettata. Partiamo, innanzitutto, dalla differenza canonica tra l’elemento tonale, che riguarda le variazioni del colore derivanti dalle diverse gradazioni della luce al suo interno, e l’elemento timbrico, che, specie nella stesura delle superfici bidimensionali, esclude la variazione chiaroscurale e presenta un elevato grado di saturazione. In relazione al colore, e alle sue diverse forme di stesura, tonale e timbrica, si consideri il segno grafico, inteso a partire proprio dalla sua più elementare caratterizzazione, come linea tracciata su di un supporto. Per quanto siano diversi, e forse innumerevoli, i modi attraverso cui si possono organizzare le forme in relazione ai rapporti tra il segno e il colore, questi finiscono per ricondursi a poche tipologie fondamentali. Una di queste è, ad esempio, costituita dal ruolo che il segno grafico assume nella delimitazione di campiture a forte valenza timbrica. Ma non occorre ai fini del nostro discorso produrre l’elenco delle varie strutture formali, già note, e specificarne i tratti distintivi. Tra le molteplici possibilità, ne consideriamo due. La prima, detta Configurazione T, si distingue dalle altre per la sua struttura impostata sulla riduzione agli estremi delle sue componenti costitutive, rappresentate rispettivamente dal tono che riguarda lo sfondo del dipinto, e dal timbro che si dispone secondo una trama di colore il cui ruolo è quello di strutturare la base tonale. In questo caso, si avrebbe un’organizzazione tale per cui il segno manterrebbe la sua funzione delimitatrice, ma secondo una ramificazione che implica l’identificazione del segno con il colore timbrico. La Configurazione F invece comporta, rispetto alla prima, un processo di inversione: dalla sua primitiva collocazione in rilievo rispetto alla superficie il segno si fonde con la base coloristica, che nella sua stesura basilare è, in questo caso, tendenzialmente timbrica, anziché presentare variazioni evidenti in senso tonale. Anche in questa modalità il segno mantiene una funzione strutturante, rimane un segno/colore, ma nella sua complanarità con la superficie di base perde la sua caratterizzazione timbrica. È evidente che le due configurazioni possono ricondursi ad una stessa dinamica, segnata dalla trasformazione del rapporto tra segno e colore: dalla prima evidenza timbrica, il reticolo segnico acquista quella variazione di tono che era propria della superficie, mentre quest’ultima perde la sua originaria piattezza timbrica per acquisire peculiarità tonali, ma in subordine all’avvenuta fusione con il segno. Tra le peculiarità di questa relazione, evidenziamo solo, per la Configurazione F, che la convergenza tra segno/colore e superficie per essere effettiva nei termini di un rapporto organico, non può avvenire attraverso pratiche di sovrapposizione del segno sulla superficie; inoltre, la interazione specifica tra segno e superficie, con la reciproca variazione di tono, è locale, e, di conseguenza, porta a mutamenti nella percezione della profondità della superficie che restano topologicamente circoscritti e tali da non poter essere ricondotti ad una visuale prospettica unitaria.

È chiaro che per la sopravvenienza estetica potremmo sempre, data la disgiunzione tra attributi strutturali, proprietà estetiche e giudizi interpretativi, sostenere che due configurazioni simili e, al limite, indiscernibili siano suscettibili di letture divergenti. E, in senso inverso, che strutture molto diversificate siano indifferenti sul piano ermeneutico – anche se in tali circostanze dovremmo forse mettere nel conto un allentamento consistente del criterio di significanza. Ma ancor più utile per l’analisi critica sarebbe la constatazione che le due configurazioni in oggetto rientrano in tipologie già note, perché vi sono strutture formali che proprio a partire dai loro elementi costitutivi si sovrappongono o alla prima o alla seconda delle due modalità considerate. Diversamente, dovremmo ammettere che per quanto riguarda la Configurazione T o F non siamo di fronte a repliche, ma a forme strutturate in modo originale.

Le due modalità anzidette cadono però in un periodo, tra gli anni Sessanta e i Settanta, in cui si è affermata la convinzione che la pittura abbia ormai esaurito tutte le sue risorse espressive, al punto che in molti non esitano a tradurre questa certezza nella forma perentoria del proclama. La concezione dominante si fonda su uno schema di impronta storicista, secondo cui il fare arte si inserisce all’interno di un processo finalistico di progressiva rivelazione o comprensione del vero. Su questo presupposto, la neoavanguardia, proprio perché per suo statuto apre al nuovo, si ritiene la forza prioritaria di questa processualità, per cui esiste un’arte al passo con i tempi, legittimata dal suo stesso paradigma di riferimento a essere egemone, che le permette di interpretare come episodico quanto non si allinea al procedere della storia.

Sarebbe ora fin troppo facile far emergere gli elementi di debolezza di questa visione, specie se si prendono in esame le pratiche di legittimazione delle neoavanguardie in relazione a quelli che sono stati i loro successivi sviluppi. Ci interessa, invece, far emergere quanto, in quello specifico contesto, poteva già risultare come un limite intrinseco alla stessa neoavanguardia. Innanzitutto, il rapporto con l’innovazione. Se il processo di “avanzamento” si deve fondare sulla produzione del nuovo e, contestualmente, legittimare un’arte al passo con i tempi, si avrà di conseguenza il rigetto di quelle innovazioni considerate inattuali e, al contempo, l’accettazione di un’arte di derivazione, purché sia in sintonia le indicazioni dell’avanguardia. Ma soprattutto il dato che accomuna le neoavanguardie è la loro fiducia nel processo di disvelamento, nella loro insistita capacità di decifrare il reale. Una reiterata fede nell’assoluto le sostanzia: pensiamo ai proclami degli Spazialisti per un’arte che tenda all’«Unito (…) attraverso un atto dello spirito svincolato da ogni materia», alla dichiarazioni di Azimuth/h per cui l’anelito all’incondizionato si traduce nell’interdizione dei mezzi propri della pittura per approdare allo «spazio totale di una luce pura e assoluta»; o, ancora, al neomisticismo dell’Arte Povera in cui l’artista-alchimista si propone come «scopritore del valore magico e meravigliante degli elementi naturali». Di qui anche il rapporto ambivalente che le neoavanguardie hanno con il naturalismo. In linea generale, è considerato il presupposto ideologico dell’arte mimetica, costituisce il limite da superare per attingere all’Assoluto, o, all’opposto, rappresenta l’occasione per una riscoperta della Natura, che deve essere colta nel suo immanente vitalismo affinché si possa costruire un nuovo rapporto tra l’uomo e le cose. Anche in questo caso la linea delle citazioni sarebbe lunga: dal proto-informale di Arcangeli fino alle “sublimazioni” della Land Art.

E se tali pretese fossero illegittime? Quali ragioni avremmo ancora per sostenere che la pittura è superata, in quei casi in cui non si pretende che le sia riconosciuta una funzione teoretica che non rivendica? Supponiamo invece che la nostra condizione sia quella di esseri viventi il cui orizzonte esistenziale si esaurisce nel ristretto ambito spazio-temporale di una natura strutturata secondo ricorrenze che assumono la configurazione di leggi. Come entità biologiche saremmo immersi nel nostro contesto naturale, dominato in tutti i suoi aspetti da una legge che ci accomuna con tutti gli esseri viventi: si lotta per la sopravvivenza. Il mondo è dominato dalla violenza, indispensabile per vivere. Nessuna particolare ragione può giustificare grandi differenze tra l’uomo, gli animali e gli altri esseri viventi. Non c’è alcun principio che possa giustificare o redimere la natura in un’ottica provvidenzialistica; nessun riscatto può essere ragionevolmente concepito perché non c’è alcuna via di redenzione. La natura si caratterizza per quello che è, secondo la sua dinamica che si ripete. In quest’ottica, gran parte dei costrutti culturali dovrebbero essere visti come tentativi di occultamento di ciò che, nella realtà dei fatti, si ripropone costantemente in natura. L’arte ed evidentemente anche le neoavanguardie, quando si definiscono nei termini che abbiamo detto, rappresenterebbero uno dei modi attraverso cui avviene la mistificazione che caratterizza il nostro quotidiano. È chiaro, a questo punto, che una simile concezione potrebbe incanalarsi verso una configurazione capace di riflettere, non certo sul piano della rappresentazione “naturalistica” o mimetica, la situazione che a livello del dato naturale viene constatata. In questo caso la Configurazione T, costituisce un modello in grado di proporsi come medium adeguato, non certo le altre.

Potremmo certo rigettare questa concezione perché troppo rudimentale. In realtà ci siamo limitati indicare solo alcune condizioni, in parte riscontrabili empiricamente in questo nostro mondo. Non abbiamo aggiunto ulteriori elementi di precisazione, né riguardo alla sua ragion d’essere, che rimane ignota, né in merito a costrutti teorici che possano confermarla o meno. Non è, ad esempio, affrontata la questione relativa a quali siano le conseguenze della crisi del riduzionismo fisicalista nell’interpretazione dei fatti biologici. Ma, come abbiamo detto, non è poi così importante, per il momento. Ciò che conta è la sua evidenza macroscopica, il suo valore d’ingombro nella formulazione del fatto d’arte. Ritornando alla sopravvenienza estetica, questa concezione è il passaggio cruciale che, in questo caso, ci permette di capire su quali presupposti si giunga a quella determinata organizzazione del manufatto artistico.

Lo spazio di manovra, quando consideriamo i rapporti tra le nostre convinzioni metafisiche e la sfera dell’arte, sembra essere davvero molto ristretto, specie se si rinuncia al dogma della libertà dell’artista capace di andare al di là di ogni limite. Ogni eventuale mutamento dovrà pertanto avvenire secondo un processo rigoroso, focalizzato sulle acquisizioni di base del proprio operare: la prevalenza del biologico, lo sfaldarsi di ogni pretesa umanistica, lo strutturale agnosticismo. Di qui la possibilità residuale di articolare ipotesi, prefigurare idealtipi che possano ricollocare la vicenda di questo mondo in un’ottica più ampia. Ma sempre nella consapevolezza delle insidie che vi sono in questo procedere, che ci obbliga a rimanere ancorati all’indagine di una materia che si organizza secondo livelli ontologici differenziati, e sempre provvisori, per giungere faticosamente alla relativizzazione dell’esistente biologico. È in questo modo che si struttura la nuova configurazione, e l’inversione che si produce a livello segnico, mantenendo il vincolo con il nucleo concettuale da cui la riflessione è partita.

Si dà per scontato, infine, che il retroterra ideologico e le procedure volte alla realizzazione pratica delle due configurazioni siano autonomi rispetto alle successive strategie che hanno ispirato il cosiddetto “ritorno alla pittura” degli anni Ottanta. Il carattere estremamente sintetico di questa nota, consente solo di puntualizzare come la specificità dell’innovazione è poco conciliabile con l’elogio della ripetizione e il frastagliato repertorio concettuale che in questi ultimi anni il postmoderno ha reso popolare.

La Configurazione T ha assunto il nome di Tonaltimbrica, mentre la Configurazione F quello di Filoplastica. Sono state realizzate rispettivamente nel 1967 a Milano, e nel 1971 a Genova da Marco Almaviva. Negli anni successivi Almaviva si è dedicato ad approfondire e rendere consistenti le ragioni che solo in parte, e in forma estremamente sintetica, sono state qui esposte.

 

Buggiano, 3 settembre 2018

Marco Almaviva

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