top of page

UNE CONVERSATION AVEC MARCO ALMAVIVA

​

CARMELO STRANO  - Tra Liguria, Toscana, Milano, quale humus ha ritenuto da ciascuno di questi luoghi, con particolare riguardo alla sua visione dell'arte?

​

MARCO ALMAVIVA   - A Milano c’è stata un’apertura totale su tutto: dalla biblioteca di via Console Marcello fino a Brera. Dapprima, frequentavo le gallerie da «osservatore esterno» al campo dell’arte e ottenevo le informazioni di prima mano, a volte anche confidenze - dal «Milione» all’Annunciata di Grossetti, da Vismara a Cortina. Fu quest’ultimo, che mi accompagnò senza esitazioni da Francesco Messina, una volta che gli dissi della sua amicizia con mio padre. Potevo conoscere i contesti più «conservatori», come i gruppi di avanguardia. Vi sarà stata pure una certa chiusura in questi ambienti, ma prevaleva una concezione «fattiva», dinamica dell’arte. Anche quando non veniva ammesso apertamente, vi era l’interesse, o almeno la curiosità, da parte degli artisti riguardo a cosa facessero gli altri – e, in fondo, il timore che qualcuno potesse trovare qualcosa… Era lo spirito della ricerca; e il confronto avveniva pubblicamente.

Rispetto a Milano, la situazione genovese era invece molto meno dinamica. Nei primi anni Settanta, si presentava come stratificata in diversi ambiti che poco o nulla comunicavano tra loro. Vi erano innanzitutto i più anziani, e tra questi coloro che avevano aderito alla stagione genovese del Secondo Futurismo – molto umili, riservati. Sentivano sempre più il peso della loro marginalizzazione, che tendeva ad accentuarsi anche in relazione al dinamismo delle neoavanguardie. In generale prevaleva la diffidenza, specie negli ambienti del collezionismo, e si sentivano tutti gli effetti della «guerriglia» di Celant, che aveva fatto molti proseliti tra i più giovani. Chiesi più volte all’università di farsi promotrice di un chiarimento metodologico riguardo alle questioni dell’arte, a partire proprio dalla situazione di Genova. Corrado Maltese, che aveva collaborato con la Galleria Amaltea, capiva le mie ragioni, ma prevalse in lui la cautela dello studioso. Le difficoltà incontrate , e la necessità di confrontarsi con le neoavanguardie, non fecero che accentuare l’impostazione critica che ha sempre caratterizzato il mio lavoro.

In Toscana mi sono trasferito nel 1979, prevalentemente per motivi «logistici» – necessità di spazio e per i costi che a Genova erano insostenibili. All’inizio, il contesto sembrava quanto mai aperto al confronto – erano gli anni di «Critica 0» e di «Critica 1», organizzati da Egidio Mucci e da Pier Luigi Tazzi (dei quali divenni amico). Nei decenni successivi si impose però la concezione di un’arte istituzionalizzata, espressione di una politica culturale a tratti celebrativa e poco incline a cogliere le differenze. È in questo contesto che ho elaborato il paradigma del «fortilizio», una lunga azione di difesa delle ragioni della Filoplastica che non significava certo chiusura, ma anzi comportava il confronto con quanto accadeva nel mondo dell’arte.

​

CS - Parla spesso e con passione di Lucio Fontana. Quali le distanze o le vicinanze, certamente indirette, dal lavoro rivoluzionario dell’artista argentino?

​

MA - Mi capitò di trovarmi a Finale Ligure davanti a una vetrina in cui erano esposte alcune ceramiche di Fontana. Non potevo sapere chi fosse, avevo 14 anni e pensai, allora, che fossero i lavori di qualcuno che era stato soldato in Africa e, al ritorno, intendeva con quelle opere ricordare la sua esperienza. Al tempo avevo iniziato a frequentare le gallerie, tra queste quella di Rotta a Genova. Iniziavo a subire il fascino della scultura, soprattutto dopo aver scoperto alcuni lavori di mio padre, a Staglieno. Ancora occasionalmente, qualche anno più tardi, verso la metà degli anni Cinquanta a Torino era esposta una tela con alcuni buchi, accanto un foglio di giornale con una foto di Fontana. Davanti un gruppetto di persone che commentava, negativamente. Il «negoziante» allora uscì difendendo il pittore e sostenendo la sua lucidità, perfettamente lucido come una targa strofinata con il sidol. Iniziavo a capire che la comprensione del Novecento comportava un lungo percorso di riflessione, di accettazione di qualcosa che andava protetto ed amato. Nei primi anni Sessanta, con il mio trasferimento a Milano, conobbi un artista di origini napoletane, che mi parlò del suo lungo progetto da pittore, fatto di una lunga attività che dal disordine sarebbe culminata nell’unità. Ma mi diceva che la via della pittura verso l’assoluto ormai era stata sbarrata da Fontana. E di fatto smise di dipingere. Solo alcuni mesi dopo ebbi la possibilità di conoscere Lucio Fontana di persona. Era con alcuni giovani, ai quali raccomandava di ricordarlo solo come colui che aveva fatto il «buco». Non contava altro. «Ma il movimento spazialista?» - qualcuno chiese. «È questione di circostanze… il buco come protesta e come assenza… L’importante è giungere a valori assoluti». Queste le parole che mi ricordo. E la vicinanza è rimasta, nel senso del carattere perentorio, irreversibile dell’innovazione, a cui tutta l’attività dell’artista doveva essere consacrata. Ma, al tempo stesso, la distanza, innanzitutto emotiva, nei confronti di chi aveva messo fuori gioco la pittura, nella quale io riponevo quasi tutte le mie speranze. E, più in generale, non riuscivo a identificarmi con l’esaltazione e l’ottimismo che caratterizzava gli spazialisti. La visione che avevo dell’arte rimandava invece ad una condizione irrimediabilmente segnata dalla difficoltà, che coinvolgeva il lavoro dell’artista, così come ogni tentativo di far fronte al dramma dell’esistenza.

​

CS  - Quali sono state le circostanze spazio-temporali-culturali che hanno determinato il suo decisivo interesse per la pittura?

​

MA - La mia decisione di diventare pittore maturò nel 1964. L’ambiente milanese era piuttosto stimolante per quanto, paradossalmente, sulla pittura incombessero tutte le implicazioni dello Spazialismo che ne avevano decretato la fine. Ma prima ancora, la pittura era me per l’unico modo per dar senso alla mia esistenza di fronte al dramma della vita che, a partire dalla sfera naturale, si esprimeva in tutta la sua angosciante ferocia. Ed è proprio in questo contesto che le questioni formali e contenutistiche si sono presentate come strutturalmente legate tra di loro.

​

CS - Quali addentellati o simpatie ha maturato con artisti (o anche letterati) del passato (antico o moderno)?

​

MA - Per la poesia il pensiero va immediatamente a quanti hanno parlato della «fatica del vivere»: a Montale e a Quasimodo. Ed evidentemente, per la narrativa, a Pavese e al Fenoglio de La Malora, per il crudo dramma dell’esistenza che si consuma in quel mondo rurale dove si deve individuare la genesi (avvenuta nella mia infanzia) di quella sensibilità che ha preso corpo nella Tonaltimbrica. Quanto alla pittura, potrei facilmente rispondere indicando tutte quelle esperienze che, per la loro originalità, costituivano modelli che certo non potevo replicare – e il riferimento va a l’intero arco delle avanguardie del Novecento. Tornando al mondo contadino, un rapporto particolare mi ha legato a Pelizza da Volpedo per la sua attenzione agli «ultimi» e, contestualmente, per una pittura che diventa «tecnica», procedura analizzata nelle sue diverse fasi costitutive. Lungo questa linea, i rimandi vanno alle «ingenuità» dei Morbelli e dei Segantini, fino ad arrivare a Carlo Levi. Nella fase germinale della Tonatlimbrica, ho prestato attenzione alla gestualità di Hartung, di Tàpies e Mathieu, ma io avevo bisogno di un segno sottile e acuminato, che analiticamente potesse strutturare, con il suo timbro, ogni parte del quadro. In ogni caso, penso di essere stato in grado di comprendere la particolare situazione di moltissimi artisti che ho conosciuto o con cui mi sono, spesso indirettamente, confrontato, da Carrà a Guttuso, da Mucchi a Galliano Mazzon. Ne ho apprezzato le particolari soluzioni formali, anche se non hanno avuto influenza sul mio lavoro.

​

CS - Quali aspetti della sua pittura costituiscono uno speciale motivo di soddisfazione e orgoglio?

​

MA - Quelli che riguardano i dipinti ben riusciti della Filoplastica. Quando non si avverte la costruzione – l’intervento estraneo dell’utensile –, come se il tutto si fosse formato da solo, come avviene nella lievitazione, al punto di poter quasi affermare che non si tratta di opera mia: io, «leggermente», l’ho solo pensata.

 

CS - Chi sono, a suo avviso, gli artisti italiani che hanno determinato svolte radicali nella seconda parte del Novecento?

​

MA - Lucio Fontana, anche perché gli altri (in modo più o meno consapevole) si sono dovuti confrontare con lui.

 

CS  - Fra le tendenze di pensiero di ampio respiro lungo il XX secolo, a quali idee ha prestato attenzione o ha rivolto le sue simpatie?

​

MA - I fondamenti della Tonaltimbrica e della Filoplastica, proprio perché incentrati sull’enigma dell’esistenza e, innanzitutto, sulla violenza che domina in natura, mi hanno portato a diffidare nei confronti di ogni ipotesi che, in misura più o meno diretta, volesse giustificare o relativizzare il dramma della vita. Non ho mai pensato di entrare nello specifico dei sistemi filosofici (non era, né vuole essere il mio compito): si è trattato di una sensibilità radicata, di una istintiva consapevolezza contro ogni tentativo di mistificazione della realtà. In origine, e nel percorso che è giunto alla Filoplastica, vi è stata una certa consonanza con le tematiche dell’esistenzialismo (l’angoscia e la gratuità dell’esistente, ad esempio), ma la mia condizione non era quella di un disagio indefinito di fronte al mistero dell’essere. Non ho mai privilegiato la dimensione di una soggettività che reclama la propria centralità. La mia è la risposta ad una realtà che ci sovrasta, solida e organizzata, nei cui confronti le ragioni dell’io sono ben poca cosa. L’esito della Filoplastica, coerentemente con le ipotesi iniziali della Tonaltimbrica, rientra per forza in un orizzonte materialistico all’interno del quale tutte le nostre umane aspirazioni devono ricondursi.

​

bottom of page