PbF22. UNA PRIMA (PARZIALE) SINTESI DEL PROGETTO
1) Com’è universalmente noto una delle istanze fondamentali dello Spazialismo è quella del superamento dei limiti fisici del quadro. È innanzitutto su questo aspetto che si concentrava l’attenzione di Kasserlian. Con la lacerazione della tela (con specifico riferimento alle Attese) Fontana aveva creato una situazione radicalmente nuova: l’effrazione del supporto implicava l’eliminazione del fondamento bidimensionale della pittura. Non ci sarebbe stato un altro piano, una superficie di “riserva” su cui contare per continuare a dipingere. E, allora, rimanere pittori avrebbe significato esserlo senza la tela – per cui, l’unica coerente ma irrealizzabile soluzione sarebbe stata la realizzazione di un dipinto, un “olio su tela” senza disporre della planarità del supporto su cui stendere il colore.
2) La logica dell’innovazione costituisce per Kaisserlian il riferimento imprescindibile per “giustificare” la svolta impressa dallo Spazialismo. L’innovazione implica la dinamica del superamento: l’atto dirimente di Fontana distingue in modo perentorio tra ciò che è rilevante, in termini di originalità, da ciò che è ormai parte della tradizione. Il concetto-limite dell’olio senza disporre del piano/tela rende esplicita la portata “rivoluzionaria” del gesto di Fontana, in quanto annulla (perché irrealizzabili) le possibilità di una risposta pertinente a Fontana se si rimane nell’alveo della pittura.
3) L’inserimento dell’interpretazione di Kaisserlian nella dinamica del modernismo diventa a questo punto di fondamentale importanza. Non possiamo che limitarci a indicare il senso di una ricerca che dalla “scoperta” greenberghiana della bidimensionalità del supporto culmina con la re-interpretazione delle neoavanguardie nei termini della riflessione di Buchloh sulla centralità del medium e, in particolare, sulla pittura come processualità. Si parte dunque dal modernismo, inteso nell’ottica di Greenberg come percorso verso quella piattezza integrale, che doveva esprimere il momento culminante di una pittura divenuta consapevole della propria essenza per affrontare, una volta chiarita l’importanza del medium (come “supporto materiale su cui riflettere”), la questione del monocromo e della sua identificazione con il readymade (Buchloh), laddove la crisi della pittura si rende del tutto esplicita e “definitiva”. È chiaro che in questo processo diventa fondamentale l’intervento di Fontana proprio perché comporta, con la rottura della planarità del supporto, l’inequivocabile eliminazione della flatness. E, di conseguenza, anche la riflessione di Kaisserlian assume il suo pieno significato.
4) Eventuali obiezioni incentrate sull’inadeguatezza del paradigma modernista rischiano di essere fuorvianti per la comprensione del nostro progetto. Non si tratta infatti di difendere questo modello, significa innanzitutto prendere atto che la logica del superamento ha caratterizzato la discussione e condizionato il divenire delle arti fino ai giorni nostri (ivi compresa la “svolta” del postmoderno e il cosiddetto ritorno alla pittura). Ma la questione è un’altra: la “densità semantica” di questa nuova ricerca è strettamente congiunta all’adozione di una serie di condizioni restrittive (come lo sono, ad esempio, quelle implicite nel modernismo) che in questo caso rendono quanto mai improbabile, se non impossibile, la realizzazione del dipinto ipotizzato da Kaisserlian e, al tempo stesso, precisano il significato alla ricerca in questione. Diversamente, si sarebbe potuto elaborare o fare affidamento a un sistema teorico i cui paradigmi avrebbero consentito di eludere le questioni poste dal modernismo e depotenziato le implicazioni dello Spazialismo. Una parte significativa del progetto si è proposta di indagare proprio questo aspetto con particolare attenzione alla riflessione sull’arte di matrice analitica al fine di evitare soluzioni puramente teoriche o prefigurazioni di mondi possibili in virtù dei quali si potessero vanificare le strette condizioni che circoscrivono la questione posta da Kaisserlian. In questa direzione si ritiene imprescindibile la “condizione di artefattualità” quale requisito prioritario sugli attributi relazionali e istituzionali nel riconoscimento della specificità dell’oggetto d’arte, in base al principio per cui nessuna proprietà può essere esemplificata senza che l’opera abbia in sé qualche caratteristica fisica ad essa correlata (J. Margolis). Date queste premesse, una risposta adeguata e consistente alle implicazioni dello Spazialismo (e, più in generale, al processo di annullamento della pittura implicito nel modernismo) deve concretizzarsi attraverso la realizzazione di un artefatto.
5) L’Artefatto è il primo esemplare realizzato da Marco Almaviva nel 2019, per il quale si hanno congiuntamente queste due condizioni:
a) è assimilabile ad un olio su tela;
b) la sua esecuzione non si è avvalsa di una tela o un piano pittorico preesistente.
In questo caso abbiamo una pittura che precede la formazione del supporto. Non esiste alcuna estensione fisica già costituita su cui disporre il colore.
L’eventualità concepita da Kasserlian, diversamente dalle ipotesi iniziali, si è realizzata.
6. Quali sono allora le conseguenze quando ci si libera dalla logica della planarità?
In quanto svincolata dalla superficie, la nuova pittura va al di là della flatness. E, pertanto, essa comporta una significativa riconsiderazione dei concetti e delle pratiche basilari della stessa pittura, dalle più elementari operazioni (tracciare una linea) fino alle più complesse procedure composizionali.
Solo due sintetiche considerazioni in relazione alle dinamiche del modernismo che hanno portato al cosiddetto "abandonement of painting”.
6.1. Iniziamo dalla più “elementare”. Con il modernismo si ha l’affermazione del principio della partecipazione strutturale della tela con gli altri elementi visuali organizzati sulla superficie del quadro. In quest’ottica la pittura si è sempre più caratterizzata come procedura “concreta”, in relazione ai diversi materiali impiegati e alle specificità fisiche delle superfici utilizzate. La linea deve esser considerata, innanzitutto, come un segno che si costituisce all’interno della “materialità della produzione pittorica” in un contesto in cui si è ormai liberata di ogni sua funzione denotativa. Ma come si può affermare l’autonomia della linea se questa rimane sempre ancorata al piano sul quale viene tracciata?
Nell’Artefatto la linea, come processo pittorico, si svincola effettivamente dal piano, pur rimanendo integra nella sua espressione materiale (d’altra parte, è la stessa condizione di artefattualità che lo prescrive).
Ma più in generale, dato che non esiste una superficie precostituita, mancano di conseguenza le condizioni minime che permettono di concepire e realizzare il dipinto in termini di composizionalità. È infatti la stessa esistenza del piano/tela che si costituisce come inevitabile premessa su cui si struttura l’organizzazione spaziale dell’opera.
6.2. Ritorniamo a questo punto al modernismo e a Fontana, in una prospettiva più ampia ma in una forma estremamente condensata. Sappiamo che, alla metà degli anni Sessanta, il discorso modernista aveva portato la pittura ad una situazione senza apparenti vie di uscita. Se con Greenberg l’essenza della pittura si doveva riconoscere nella flatness, le conseguenze non potevano che essere quelle dell’identificazione dell’area dipinta con la bidimensionalità del supporto. Mantenendo, in ogni caso, confermando “the literalness of the picture surface” (M. Fried). Ma divenne altrettanto chiaro che quando l'atto pittorico interveniva sulla tela, l’effetto illusionistico che si sarebbe creato, avrebbe distrutto la “virtual flatness” della superficie, rimettendo in discussione la corrispondenza tra la pittura e il carattere letterale dell'opera. La necessità di eliminare definitivamente ogni forma di illusionismo si concretizzò allora nella produzione Minimal, fatta di opere integralmente letterali - ma alla condizione che si rinunciasse una volta per tutte alla forma dipinta per aprirsi allo spazio effettivo, “intrinsecally more powerful and specific than paint on a flat surface” (D. Judd). In estrema sintesi, l’asse Greenberg-Fried pensava di salvaguardare la pittura ritenendo impossibile rinunciare all’integrità del piano pittorico, ma lasciando aperto il problema della forma letterale dell’opera. All’opposto Judd credeva che letteralità e pittura fossero incompatibili e, pertanto, riteneva che fosse necessario disfarsi della pittura, esaltando la materialità dispiegata della superficie dell’oggetto (non certo l’inverso).
Pittura e letteralità erano da considerarsi del tutto incompatibili.
Ma Fontana aveva comunque già messo in discussione la possibilità per la pittura di difendere la propria autonomia, dal momento che la stessa bidimensionalità del piano pittorico erano stata definitivamente compromessa. Di certo non si poteva pensare di riproporre la pittura “restaurando” l’integrità della superficie. Quindi non solo non sarebbe stato impossibile conciliare letteralità e forma dipinta, ma alla luce dello Spazialismo la controversia nemmeno si sarebbe posta.
E allora come uscire da una situazione di totale azzeramento della pittura?
La soluzione andava cercata proprio nel paradosso di una pittura autonoma rispetto alla stessa flatness.
Significava rinunciare alla superficie, ma mantenere integra la pittura. Dunque realizzare un quadro senza la tela su cui dipingere. Ma se si rinuncia al piano, la pittura si libera anche del problema dell’illusionismo – conseguenza inevitabile dell’atto pittorico proprio a partire dalla flatness. Il risultato è stata la realizzazione di un’opera pittorica che coincide integralmente con la struttura del suo supporto. L’Artefatto dimostra che letteralità e pittura non sono incompatibili, contrariamente a quanto si potesse pensare.
[ segue … Painting beyond Flatness]
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